Onorevoli Colleghi! - La storia del diritto penale e della pena, come affermato dal grande storico del diritto Rudolf von Jhering, «è una continua abolizione». Le pene inumane ed atroci dei secoli passati sono state via via abolite e da ultimo la pena di morte, ammessa dall'articolo 27 della Costituzione solo nei casi previsti dalle leggi militari di guerra, è stata abolita con la legge 13 ottobre 1994, n. 589.
      Se, dunque, tale scelta appare assolutamente condivisibile, per gli altri tipi di pena occorre, invece, cercare di non travolgere i fondamenti del patto sociale. Questo patto stipulato tra i cittadini e lo Stato si fonda, tra l'altro, da un lato, sull'assunzione di responsabilità da parte del secondo, che si impegna a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, primo tra tutti il diritto alla vita, alla integrità personale ed alla sicurezza contro

 

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il crimine, e, dall'altro, sulla fissazione di limiti precisi da imporre all'autorità dello Stato nell'attività repressiva del crimine stesso. L'impegno a garantire la sicurezza dei cittadini contro il crimine si accompagna all'esistenza di un monopolio statale dell'uso della forza, il che, giustamente, impedisce al cittadino di farsi giustizia da solo (ne cives ad arma ruant), salva l'ipotesi in cui ricorra la fattispecie della legittima difesa.
      Ebbene, gli ultimi decenni hanno visto una crescente attenzione delle forze politiche, del mondo universitario e dei giuristi verso l'individuazione di sempre maggiori vincoli cui lo Stato è assoggettato nell'esercizio dell'attività repressiva del crimine. Al contrario, la parte del patto sociale riguardante la sicurezza dei cittadini è stata trascurata, se non dimenticata.
      Sono fioriti gli interventi normativi e gli studi giuridici volti a spostare il baricentro del diritto penale dal reo al fatto, ad introdurre sempre maggiori benefìci penitenziari, a ridurre le pene, ad aumentare le garanzie nel processo penale. Non si intende criticare, in questa sede, tutto il movimento di pensiero che ha portato a queste innovazioni, molte delle quali condivisibili; si vuole, invece, sottolineare come quelle stesse forze politiche e quel mondo accademico, che si sono sforzati di concepire benefìci in senso unilaterale, non abbiano sprecato alcuna risorsa materiale od intellettuale per migliorare la condizione della vittima del reato.
      Questa proposta di legge si pone come obiettivo quello di garantire un rinnovamento culturale che, senza assumere atteggiamenti inumani verso il reo, riconosca il giusto valore da attribuire alla vittima del reato e che sappia distinguere tra il prepotente ed il succube, tra il buono ed il cattivo.
      Lo Stato, nell'applicare la pena e nell'attuare la rieducazione dei condannati, sostituisce doverosamente la propria giustizia a quella privata. Il momento della rieducazione, in particolare, che raramente è compreso dai cittadini che vorrebbero maggiore severità nell'esecuzione delle pene e che comporta l'anticipazione della liberazione del condannato, è spesso foriero di tensione sociale.
      È indubbio che la rieducazione, se va a buon fine con l'effettiva risocializzazione del condannato, comporta benefici generali per lo Stato e per la società. Nel caso opposto, invece, i danni, oltre ad avere effetti generali, hanno sempre preponderanti effetti particolari. Infatti, quando il condannato - liberato attraverso l'applicazione degli istituti giuridici preposti alla sua rieducazione - incorre nella recidiva, i danni del nuovo reato, spesso gravissimi ed irreparabili, incidono sull'integrità, sulla sicurezza e sulla libertà dei singoli cittadini onesti. Né alcuno può, con onestà intellettuale, affermare che i casi di recidiva siano un «dato statistico irrilevante», perché tutti sanno che i tribunali della Repubblica e le Forze di polizia si occupano sempre delle stesse persone che entrano ed escono dal carcere continuamente.
      La presente proposta di legge vuole che non siano i cittadini a pagare il fallimento della rieducazione, bensì lo Stato. Essa, poi, intende dare maggiore dignità alla vittima del reato stabilendo un principio generale di tutela ed impegnando le autorità dello Stato a garantire assistenza e sostegno alle persone offese (articolo 1). Essa vuole, inoltre, ovviare ai danni derivanti da reato garantendo sempre un ristoro economico al cittadino che, offeso dal delitto commesso da chi, per scelta dello Stato, sconta la pena in libertà ovvero non la sconta affatto, non riesca ad ottenere il risarcimento del danno da parte del reo o del responsabile civile.
      L'articolo 2, pertanto, con l'introduzione dell'articolo 187 bis dal codice penale, pone a carico dello Stato il danno patrimoniale o non patrimoniale cagionato dal reato quando il fatto sia stato commesso da persona:

          a) che sia stata liberata per la concessione dell'amnistia, dell'indulto, della grazia, della liberazione condizionale o della sospensione condizionale della pena nei cinque anni successivi all'applicazione del beneficio;

 

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          b) ammessa ad una misura alternativa alla detenzione durante l'esecuzione della misura;

          c) ammessa al permesso o ad altro beneficio penitenziario che comporti il godimento di libertà durante l'esecuzione della pena;

          d) condannata a sanzioni sostitutive di pene detentive brevi previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, durante l'esecuzione delle sanzioni.

      La norma prevede sia che, per aver diritto al risarcimento del danno, la persona danneggiata debba prima infruttuosamente agire in giudizio contro il colpevole e le persone civilmente responsabili sia che lo Stato possa rivalersi sul colpevole e sulle persone civilmente responsabili, secondo le disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia.
      L'articolo 3 contempla la possibilità per la vittima del reato, nei casi previsti dal nuovo articolo 187-bis del codice penale, di accedere al patrocinio a spese dello stato nel processo penale e nel processo civile senza tener conto dei limiti di reddito indicati dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, che ammette al patrocinio gratuito solo i non abbienti. Ovviamente l'estensione del beneficio a tutti, senza limiti di reddito, è giustificata dalla sofferenza patita dalla vittima di un reato che non avrebbe dovuto essere commesso.
      L'articolo 4 stabilisce, per un principio di equità, che i proventi acquisiti dallo Stato attraverso la confisca penale siano utilizzati per far fronte alle spese a cui la presente legge dia luogo in via prioritaria rispetto ad altre voci di bilancio. Si afferma cioè che ciò che la criminalità toglie al cittadino sia a questi restituito.
      Infine, per consentire alle già numerose vittime dei criminali liberati con il recente indulto di ottenere un ristoro alle loro sofferenze, la presente proposta di legge stabilisce un effetto retroattivo delle sue disposizioni al 1o agosto 2006.

 

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